Asmita, il senso dell’io, è
annoverato da Patanjali tra i cinque impedimenti (kilesha) della mente, come causa di
sofferenza.
Negli yoga sutra, asmita viene descritto come “il confondere la coscienza con
ciò che è soltanto il riflesso o contenuto della coscienza”.
Nella filosofia Yoga-Vedanta,
tutta la manifestazione, tutto ciò che esiste, è l’espressione multiforme di un
unica Realtà sottostante e illimitata che è descritta in vario modo e principalmente come Coscienza.
L’universo è dunque
permeato di intelligenza, di energia,
di consapevolezza, in forme praticamente infinite e continuamente mutevoli. Il corpo e la mente sono forme o veicoli, attraverso cui la coscienza infinita si manifesta e si esprime.
Il senso dell’ego si
manifesta nel momento in cui noi ci identifichiamo, con la forma particolare
che la Realtà assoluta assume in un preciso istante, quando crediamo di essere
soltanto quello che il corpo è in quel momento e quello che la mente pensa in
un preciso momento.
Il continuo identificarsi con gli stati mentali, con il
flusso di pensieri e di sensazioni è ciò che genera il senso dell’ego, che sarà
ora triste ora felice a seconda di quali sensazioni e del tipo di pensieri e di
emozioni che lo attraversano, quindi costantemente condizionato.
Non dobbiamo credere che
sia un fattore esclusivamente negativo, di per se l’io crea un senso di unità
in ciò che altrimenti sarebbe solo un flusso caotico di stati mentali senza alcun senso di continuità e di
struttura. E’ uno stadio evolutivo necessario.

Il problema nasce quando ci si
ferma a questo livello. Quando si prende questo minuscolo frammento di realtà
temporanea, per la nostra essenza ultima e permanente, quando crediamo che ciò
sia veramente il nostro essere.
Possiamo considerare la
pratica dello yoga come una pratica di progressiva disidentificazione dai
contenuti del mentale e dello spostare l’asse, il centro del nostro essere
verso ciò che contiene, conosce e dà forma ai diversi
stati mutevoli che sperimentiamo; la coscienza-consapevolezza. E’
principalmente attraverso la pratica di Dyana, nella meditazione,
che la coscienza osserva i propri contenuti mutevoli senza perdersi in essi, senza
lasciarsi risucchiare o ipnotizzare.

Riuscire a discriminare il contenitore
dal contenuto, quelli che nella Gita vengono chiamati "Il campo e
il conoscitore del campo", lo spazio dagli oggetti contenuti nello
spazio, è un lavoro lento continuo e progressivo, non facile, ma essenziale e
profondamente appagante, se non altro perché ci mette in contatto con la nostra
essenza profonda, con ciò che siamo veramente.
Scopriamo progressivamente
che la capacità di essere coscienti e consapevoli della nostra esperienza ci
rende più liberi e meno assorbiti dall’emozione e dal flusso di pensieri
presente nel momento.

I contenuti della
mente, pur rimanendo presenti diverranno via via meno invasivi, meno rumorosi, e
impareremo via via a vedere sempre meglio
il loro non essere solidi e permanenti come credevamo e dunque anche meno
temibili. Accanto a questi contenuti, prende forma in noi la luce della
consapevolezza, una forza cosciente, affidabile, spaziosa, che è in grado di
conoscere, accogliere, trasformare e
guarire.
La consapevolezza-coscienza è quindi da un lato sia il risultato del nostro esercitare costantemente l’attenzione, la mente si stabilizza e
si raccoglie intorno ad un oggetto, sia l’essenza della realtà ultima che non
può essere generata o raggiunta perché sempre presente, luminosa e infinita,
fuori dal tempo (non-nata). All’interno di questo apparente paradosso si
inserisce con umiltà e grandezza la nostra pratica.
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